lunedì 28 gennaio 2008

A che serve l'etica?

Siete mai stati assunti in una azienda? Se sì, dopo aver firmato il contratto avrete ricevuto, insieme ad altri manuali, anche il librino del codice etico, ormai parte integrante della comunicazione di ogni società. L’attenzione sempre maggiore alla responsabilità sociale delle aziende ha prodotto una fioritura di codici, carte dei valori e anche carte dei servizi per i consumatori.
Queste carte cosa rappresentano, sono solo maquillage o hanno una funzione reale?
«Il tema dei comportamenti responsabili delle aziende non è nuovo, ma negli ultimi anni ha subito un’ accelerazione. Va detto che c’è un obbligo di dotarsi di codici etici: la legge 231/01 impone alle aziende sopra una certa dimensione di averlo. L’accelerazione è dovuta a diversi fattori: i pubblici di riferimento delle aziende, sempre più consapevoli dei loro diritti; la pressione sindacale, oggi molto più forte sul piano della condizione dei dipendenti rispetto alle questioni contrattuali. Inoltre, i dipendenti potenziali sono soggetti sempre meno attirabili, scelgono da chi farsi assumere anche in base alla comunicazione che le aziende sono in grado di proporre».
Parlando di comunicazione, chi scrive i codici etici?
«Fino a tre o quattro anni fa il tema della responsabilità era affidato a unità di comunicazione interne, che seguivano anche iniziative rivolte al no profit. Oggi più che di responsabilità sociale si deve parlare di responsabilità di impresa, che passa nelle mani di altre funzioni aziendali: l’ audit, le risorse umane, la finanza; i comunicatori si limitano a mettere in atto le campagne e le attività di comunicazione, in coerenza con le politiche aziendali coordinate e monitorate dalla testa. Ciò riguarda il tema più generale della governance, cioè la rappresentazione dei pubblici esterni nelle scelte aziendali».
E come vengono scritti?
«Non esistono trucchi nel giornalismo e nemmeno nelle relazioni pubbliche. Ci sono modelli di riferimento che contengono principi validi per qualsiasi organizzazione, ma il codice va tagliato su misura in funzione della specificità, del mercato, del territorio: un codice etico da attuare in Iran sarà diverso che in California».
Quindi la cosa più difficile è adattare l’etica?
«Sì, anche perché con la scusa dell’adattamento è successo di tutto. Basta pensare allo scandalo Lockeed degli anni 70, il caso di corruzione internazionale degli aerei della Lockeed che provocò un terremoto politico; non si seppe mai chi fu il beneficiario delle tangenti, anche se molti lo sospettavano. Dopo lo scandalo gli Stati Uniti approvarono una legge che imponeva alle aziende americane un codice etico che implicava comportamenti identici qualunque fosse il paese in cui si operava. Se in Cina l’azienda si comportava diversamente, i dirigenti americani sarebbero stati responsabili civilmente e penalmente».
In pratica cosa significa?
«Rendere universali i principi di responsabilità. È incongruente rispetto al relativismo: ogni paese ha le sue abitudini. Ad esempio la notizia che la Lehman Brothers, la banca d’affari statunitense, seleziona nei paesi asiatici brokers gay, che effetto avrebbe in Italia? Va bene avere principi generali, ma poi vanno declinati».
Ma chi legge i codici?
«Oggi c’è la tendenza ad ascoltare tutti i soggetti interessati all’azienda per capire quali sono le loro aspettative, in modo tale da formulare delle comunicazioni interessanti. Per gli esperti, le cose più specifiche sono segnalate “a parte”. L’Enel, ad esempio, ha emesso un bilancio segmentato: a fumetti, molto schematico per il grande pubblico, a cui è affiancata una versione che rispetta i canoni internazionali».
Beneficienza e no profit cosa rappresentano?
«Fare beneficienza o aiutare il no profit è importante, ma la responsabilità sociale è un tema più ampio».
Quindi non si tratta soltanto di immagine?
«C’è anche questo aspetto, e occuparsi responsabilità sociale è diventato una moda. A volte molto ingannevole: la Parmalat, nel suo periodo peggiore, aveva un bilancio citato come uno dei più trasparenti».
A che punto è la trasparenza?
«La pressione sulle aziende è forte. Dopo gli scandali Parmalat e Cirio la questione è lampante; ora, la tragedia della Thyssen avrà un forte impatto sulle norme che regolano i rapporti interni ed esterni delle aziende e sul loro rispetto».
In generale, l’etica è un elemento di competitività?
«Ovviamente, ma più che di etica io parlerei di deontologia, di comportamenti più che di filosofia. Lo è nelle scuole: negli Stati Uniti, ad esempio, il plagio è diffuso, molti studenti violano la deontologia dello studio e chi rispetta le regole è più competitivo. Anche per i docenti, la coerenza tra ciò che dicono e ciò che fanno diventa un vantaggio verso gli studenti che giudicano. Vero è, anche, che un gran numero di persone che operano nel sistema sociale hanno dei vantaggi competitivi proprio perché non si comportano in modo etico, ad esempio chi specula su delle azioni avendo informazioni riservate. La norma sociale vorrebbe che le persone si comportassero in un certo modo che è il modo ritenuto utile e giusto dalla maggioranza, almeno nelle democrazie, ma non sempre succede così».
Ritornando alle imprese...
«Ad esempio la Emron è caduta, ma fino ad allora era molto rispettata, riverita, stimata e aveva un codice etico che era considerato uno dei migliori. I codici etici, la missione, la dichiarazione dei principi e dei valori, la visione dell’organizzazione sono “aria fritta” fino a quando non vengono attuati; la comunicazioni segue i comportamenti, non può precederli. O perlomeno li affianca, perché se li anticipasse farebbe la politica dell’annuncio. Ci sono aziende che hanno svoltato: la Nike, la stessa Mattel dopo le vicende cinesi; e non sono uscite dal mercato. Mc Donald’s, pur non avendo mai violato l’etica, ha cambiato il management, la linea dei prodotti e ora sta andando molto bene».
Come ha comunicato la Thyssen dopo la tragedia?
«Non ha comunicato bene, se no ce ne saremmo accorti. Ho l’impressione che l’attenzione su Torino tenderà a calare, lo stabilimento sta chiudendo; bisogna vedere cosa succederà a Terni e nella casa madre».
E il documento emerso a Terni?
«Non so chi l’ha scritto ma avrei potuto scriverlo io: più volte ho scritto documenti su richiesta di un committente. L’originale era in tedesco, probalimente è stato scritto da qualche dirigente venuto in Italia a dare un’occhiata, o dall’amministratore delegato stesso. Non mi pare contenga cose straordinarie: dire che gli operai della Thyssen sono troppo mediatizzati è vero, perché un operaio che non è mai stato in televisione in vita sua si è visto intervistato per una settimana».
Quale danno subirà?
«Il danno che riceverà, l’ha già ricevuto: la credibilità dell’azienda è abbastanza crollata. Ciò non significa che andrà fuori dal mercato ma sicuramente lo sbandamento è forte, soprattutto per quelle che saranno le conseguenze sul piano giudiziario».
E oltre agli aspetti giudiziari?
«C’è il danno reputazionale,non dovuto a una comunicazione “di crisi” sbagliata ma all’ assenza di comunicazione. Avrebbero certo potuto fare meglio».

tanto per cominciare..

..come ogni settimana ci troviamo in aula a lezione..e questa è la prima prova di blog